“SCAPPA – GET OUT”: SOCIO-THRILLER ALL’ULTIMO RESPIRO

Se la suspance è capace di trasformarsi in spazio di riflessione, allora forse hai finalmente di fronte un thriller profondo e non privo di significato.

Questo è ciò che dovrebbe accadere se guardi Scappa – Get Out, figlio registicamente perfetto di un disegno altrettanto buono di Jordan Peele. Di fatti, nel mio caso, questa pellicola ha reso una normale serata, progettata a base di compagnia e film elettrizzanti, in una serata coi fiocchi.

L’inizio vero e proprio è una sorta di avviso per il pubblico, ti mette già faccia a faccia con il sentimento dell’ansia, creato ad arte con una scena oscura (nelle immagini e nel significato) e una musica da pelle d’oca, come per dire: “Guarda che, se non lo hai capito dal titolo, funzionerà così“. Ma in realtà è un avvertimento che realizzi dopo, ben più tardi, perché i minuti successivi che ti introducono alla storia sono come da tradizione gioiosi, pieni di luce, nel quadretto insospettabile di una giornata di sole (cuore) e amore.

Inizialmente al centro di tutto, una giovane coppia, lui nero di pelle e lei bianca (anche troppo), e un viaggio in macchina verso la tenuta della famiglia della ragazza, per rendere noto il fidanzamento a fratello, mamma e papà, con tanto di presentazioni. Fin qui sulla carta andrebbe tutto bene, se non fosse che però già nella pratica il percorso in strada regala, quando meno te lo aspetti, il primo colpo al cuore, con una piccola macabra sorpresa. Ma i problemi veri e propri arrivano, in ogni caso, nella sfarzosa dimora, tra interno e giardino. Dove è tutto immenso, tra l’altro, e tutto ben isolato, se si pensa che tra il villone e il “vicino” meno lontano c’è di mezzo addirittura un lago intero.

Per farla breve, la vera padrona di casa Armitage è la stranezza. Un sentimento cucito addosso non solo alla domestica e al giardiniere di famiglia, entrambi di colore, che ad ogni scena in cui sono coinvolti ti disegnano i brividi lungo la schiena (movenze da paura, discorsi ambigui, sguardi persi nel vuoto, …), ma anche alla glaciale madre della ragazza, su cui fin da subito aleggia un senso di mistero, e al suo figliolo irrequieto, che sa di puro squilibrato dal primo momento in cui lo vedi.

Ma la realtà dei fatti è che davvero nessuno si salva, e nessuno è meno peggio, o meno ambiguo dell’altro. Quel che c’è, al contrario, di sempre più definito, è il ruolo che assumono questi loschi personaggi nella storia perché, tassello dopo tassello, è facile capire che questi vadano sicuramente a comporre un puzzle infinito (contando anche una rimpatriata, di altri famigliari e amici, nella tenuta) di cattivi. Capisci subito che la vita del giovane protagonista di colore, Chris, è destinata ad essere coinvolta in pericoli sempre maggiori; capisci subito per mano di chi questo accadrà; ma capisci soltanto pian piano come questo avverrà e soprattutto perché.

È allora che diventano chiari i messaggi e gli argomenti che il film vuole toccare e passarci. In prima battuta, ci sono piccoli riferimenti storici precisi ed espliciti, che possono forse in qualche modo passare inosservati, ma a mio parere costituiscono la vera base di tutta la vicenda, lo “start”, e guidano alla lettura della storia. Sono riferimenti che portano al periodo del nazismo di Hitler e meglio ancora ai tempi delle Olimpiadi di Berlino del 1936, che consacrarono il velocista e lunghista nero Jesse Owens con quattro medaglie d’oro, risultato di dominio fisico assoluto a cui il nonno della giovane di casa Armitage, in quell’occasione sportiva, dovette soccombere.

Da qui, da così lontano, parte tutto. Da qui, secondo me, inizia ad intrecciarsi un paradossale doppio sentimento, che passa nella famiglia, tramandato, per due generazioni: da una parte c’è una sorta di ammirazione per determinate qualità fisiche esclusive dei neri ed escluse ai bianchi (forza, robustezza, resistenza, velocità), e dall’altra odio e desiderio di maneggiare e di appropriarsi di qualcosa che sarebbe liberamente altrui, oltretutto alla fine dei conti sfidando, faustianamente, addirittura la natura e le sue leggi.

Più o meno implicitamente si parla di genetica, di geni migliori, si citano studi scientifici e la messa a punto di tecniche per la realizzazione di un progetto completamente macabro e folle, che ha già avuto effettivamente avvio e ha già portato dei risultati. Si delineano dominati e dominatori, vittime e carnefici, un “mondo sommerso” che intrappola tremendamente i poveri scelti e un mondo reale che, per questi, perde dopo, in modo drammatico, il suo valore, la sua pienezza vitale originale.

Con la scoperta della reale natura intrinsecamente malvagia anche di Rose (beh, tale madre, tale padre, tale figlia!), non solo l’amore si trasforma in inganno, ma anche il viaggio iniziale verso la tenuta assume metaforicamente le sembianze di un trasporto forzato, alla stregua di una deportazione, capace effettivamente di rivelarsi un viaggio senza ritorno.

In questo rapporto di potere e subordinazione forzata (anche grazie all’ipnosi), un gruppo famigliare è vera e propria setta (…), fabbrica della morte, o meglio della spersonalizzazione, e persone innocenti vengono trasformate in oggetti, da vendere, da scambiare, da sfruttare, talvolta da buttare. Così, si vede bene come vite normali possono essere stravolte, di punto in bianco, da cambiamenti improvvisi e da orrori a cui il regista ci mette gradualmente di fronte agli occhi, dall’inizio, svelandoci pian piano tanti lati nascosti.

Il bello del film è che, se lo guardi con un minimo di spirito critico, tutte queste considerazioni possono davvero comporsi immediatamente o comunque presto nella tua testa, senza comunque distrarre l’attenzione sempre rivolta verso un film in continua evoluzione, molto dinamico, con poche pause, pieno di suspance, di tensione e di tantissimi elementi stilistici da applausi. Non possono essere, infatti, di sicuro un caso il recentissimo riconoscimento come “Miglior sceneggiatura originale” al regista che ha anche scritto il film e le decine di altri riconoscimenti ottenuti dalla pellicola nello scorso anno.

A tratti ironico e divertente, specie grazie alla figura dell’agente, il thriller nasconde anche un interessante sviluppo personale di Chris, il protagonista: se da bambino, alla scomparsa della madre, vinto dalla paura aveva reagito restando fermo ad aspettare, a casa, senza chiedere aiuto alle forze dell’ordine, in questo caso agisce, prende in mano la situazione, dimostrando non solo di avere grande elasticità mentale, ma anche di avvertire il pericolo e di cercare, contro tutti, di trovare una soluzione per evitarsi il peggio.

E se il problema è essere finito in mezzo a un mare immenso di problemi, la migliore soluzione praticabile è quella di scappare, prima che sia troppo tardi: Run, Rabbit, Run!
Get Out!

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