“BOHEMIAN RHAPSODY”: QUANDO LA MUSICA DIVENTA IMMORTALE

Sono entrato nella sala da profano del mondo dei Queen e ne sono uscito da profano un po’ migliore, con nuove conoscenze sia sulla loro ammirevole musica sia sull’evoluzione della band, sensibile alla tormentata vita-satellite dell’eccentrico Mercury.

Bohemian Rhapsody è “semplicemente” la storia del gruppo dei record, resa proprio attraverso la prospettiva esistenziale del suo front-man: un performer che da una parte, sul palco, dà al pubblico il Paradiso che esso chiede, e dall’altra, nel privato, allestisce per sé un Inferno logorante, a tratti incontrollabile.

Il film ci mostra una lunga realtà di processi, soprattutto scoperte musicali condivise e scoperte interiori individuali, e alterna senza sosta scena, fuori scena e dietro le quinte. La musica è l’indiscutibile fuoco centrale della storia, con un comparto audio gestito in maniera magistrale, dove la resa di ogni esecuzione appare coinvolgente all’ennesima potenza, quasi ci trovassimo, pezzo dopo pezzo, ad assistere a esibizioni live.

Non dev’essere stato poi per nulla facile raccontare senza tagli netti o approssimazioni, in circa due ore di pellicola, i momenti salienti di un ventennio di carriera e allo stesso tempo adottare una prospettiva profondamente interna dei fatti. Ma il risultato che ne deriva è oggettivamente eccezionale: tutte le scelte stilistiche si dimostrano in grado di spiegare con lucidità invidiabile il percorso dei Queen, nel suo (quasi) totale arco di vita.

A livello di tematiche, grande enfasi è posta sull’elemento del rischio, declinato in versioni positive e negative, entrambe comunque accomunate dalla spregiudicatezza; c’è l’importanza dei valori legati ai rapporti umani autentici, posti in antitesi con le logiche di denaro e profitto, troppo spesso erronee priorità di vita e molte volte celate dietro false maschere; infine, si dimostra centrale il concetto della famiglia: nella storia di Farrokh-Freddie assistiamo a una sorta di cerchio, che parte dall’allontanamento personale dalla figura paterna e dall’adozione in una nuova “casa” musicale, arriva a una separazione anche da quest’ultima e si chiude con il ricongiungimento definitivo con tutte e due le realtà precedentemente compromesse, esiliate.

Oltre la bella recitazione elastica di Rami Malek, l’immediata bellezza sbalorditiva di Lucy Boynton e lo splendido finale dell’esibizione di Wembley (We Are The Champions ogni volta mi sconvolge di brividi e mi riporta indietro nel tempo…), di questo film, destinato a rimanere negli anni, resta un bel messaggio fondamentale: il fascino dei Queen può smuovere tutti, ma avere il fascino dei Queen sarà sempre una cosa per pochi. Loro e basta.

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