Un invito comune, quindi un cerchio che si forma, infine un mistero da risolvere: strato dopo strato, la situazione è creata, sull’isolotto greco di un “miliardario tormentato”. Qui, un enigma si palesa in tutta la sua complessità, in mezzo ai rintocchi di un fragoroso orologio i cui dong sembrano avvertire tutti gli ospiti che il tempo dell’indagine è arrivato. Il talento deduttivo del detective Benoit Blanc, imbucato alla festa, deve infatti entrare in gioco, perché ci sono un impostore da scovare e una verità da rendere trasparente come il vetro.
Attraverso soluzioni narrative a metà tra l’esordio di 10 piccoli indiani (l’arrivo uno dopo l’altro con i bagagli) e quello di Escape Room (la scatola rompicapo da decifrare), il weekend estivo nel Mar Egeo di alcuni personaggi pubblici che gravitano come remore intorno alla figura di Miles Bron – squalo zen dell’imprenditoria che, in nome di un’amicizia storica, finanzia i loro progetti o gli dà lavoro – inizia in modo del tutto sereno e rappresenta il momento della rimpatriata annuale del gruppo.
L’ennesima reunion organizzata nelle sue proprietà prevede un’allettante cena con delitto, ma questa, da gioco, per alcune particolari circostanze finisce ben presto per trasformarsi in realtà: la morte improvvisa di uno degli ospiti, sicuramente omicidio, ed ecco che gli altri partecipanti diventano immediatamente sospettati, mentre l’alta marea notturna impedisce lo sbarco dei soccorsi e soprattutto delle autorità. E sullo stile di Da Vinci, capace di dipingere con una tecnica pittorica che non lascia linee, l’autore del crimine è del tutto convinto di aver realizzato un capolavoro senza firma e anzi vuole colpire ancora, rassicurato dalle tenebre della notte che confondono sagome e idee, così da risolvere in maniera definitiva determinate questioni rimaste in sospeso.
L’intervento del detective, anche in questo film, è risolutore e spiazzante allo stesso tempo, con un metodo di indagine che, prefigurandosi la tragedia con grande anticipo, parte da lontano e si attiva paradossalmente già prima del precipitare della situazione; un modus operandi che, nella sua fase iniziale, fa molta leva su un atteggiamento da individuo ingenuo e da persona un po’ goffa, probabilmente per mettersi sullo stesso piano intellettivo degli altri personaggi o forse per assicurarsi una buona dose di confidenza senza generare timore reverenziale. Intanto però lui, quando è giorno e le acque sono ancora calme, in modo matematico esplora gli ambienti, studia i rapporti tra gli invitati, osserva le dinamiche e ascolta i discorsi. Tutto questo senza mai interagire, lasciando scorrere ogni cosa per non interferire con gli eventi.
Tra luce e buio che continuano ad alternarsi, Blanc, girando metaforicamente i corridoi di una suggestiva (e insanguinata) mappa di Among Us senza voler premere subito il bottone d’allarme, attende un po’ di ore prima di formulare la sua sentenza definitiva. Ma, con l’avanzare della pellicola, ci accorgiamo che in fondo l’ispettore ha già unito gran parte dei puntini del rompicapo.
Capiamo, allora, che quella che noi percepiamo come la volontà di ottenere conferme rispetto alle proprie idee o di giungere a prove concrete e definitive, in realtà è soprattutto il suo desiderio inconscio di allestire uno svelamento teatrale, degno dell’occasione. Insieme a ciò, è anche la voglia di interpretare il ruolo di un regista che, seduto un po’ lontano dal palco a fumare un sigaro, lancia suggerimenti e lascia altruisticamente la scena a nuovi attori, che meritano l’applauso finale.
Il passo indietro che, in questa occasione, il detective compie vuole soprattutto diventare un assist per noi spettatori e, infatti, ci dà il tempo e il modo di vedere le principali dinamiche che si creano sull’isola, di partecipare con tutte le ipotesi del caso e di essere pronti per puntare il nostro dito contro il presunto colpevole. Però, nel fatidico punto di svolta, accade che la narrazione prima si interrompe, poi ci schiaffeggia e infine ci sussurra che sì, magari siamo bravi ad aver intuito il nome dell’assassino, ma no, non siamo ancora pronti per incastrarlo fino in fondo, non avendo ben chiaro tutto il quadro della vicenda.
Ed è qui che accade l’autentica magia del film. Film che ci ha già fatto oggettivamente vedere in modo trasparente la verità dei fatti (abbiamo potuto sentire indizi, verità e confessioni, senza avere gli strumenti per capirlo), ma non ci ha ancora detto in modo esplicito che essa, in realtà, è il risultato di tante opache bugie, ovvero quell’antefatto del crimine che sarà capace di stravolgerne il senso. Così, a un passo dall’idea di aver già sbucciato con cura tutto l’intreccio, apparentemente a un metro esatto dalla soluzione, la tecnica di racconto cambia, fa retromarcia, e la cipolla viene rivestita, strato dopo strato, col solo obiettivo di farci capire la sua essenza: una struttura composta da livelli, l’uno indispensabile per l’altro.
Come conseguenza, rispetto alla sola prospettiva della storia che abbiamo guardato fin dall’inizio, ecco che ci accorgiamo di come esista un secondo punto di vista che completa il primo e restituisce inediti piani di comprensione, di cui stavamo vedendo solamente gli effetti, senza conoscerne l’origine. Rispettando il titolo della pellicola, ogni dinamica diventa gradualmente trasparente e la brillante sceneggiatura, onorando la definizione dei suoi personaggi (i cosiddetti “disgregatori”), spezza la linearità degli eventi e li ricompone con un nuovo sguardo, partendo dall’inizio e conducendoci una seconda volta al momento dell’accusa finale, a cui in questa occasione arriviamo con premesse diverse.
Così in questa indagine, ricca di simbolismi, si va due volte dall’alfa all’omega e nel mentre si affronta in profondità il binomio autentico-falso (declinato molto spesso nelle piccole cose, da un fazzoletto alla Gioconda), con una seria riflessione sul concetto di verità. E con un messaggio di fondo capace di ricordarci che essa rappresenta un concetto condiviso perché, in ogni situazione collettiva, si compone almeno di due angolazioni (anche le ricostruzioni di Blanc non sono soltanto “sue”…). Persino lo stile di riprese, dinamico e ricco di movimenti all’interno di una stessa inquadratura, vuole restituire questa continua oscillazione tra sguardi diversi, proponendo infatti di frequente oggetti, volti e corpi da più ottiche diverse.
“Glass Onion”, per tirare le somme, è un mistero decisamente più eclettico e meno serioso del primo degli Knives Out, ma va anche detto che i paragoni con l”altra opera di Rian Johnson, che di certo porterebbero a individuare decine e decine di differenze significative (appunto, dall’impianto narrativo al tono del copione), non sono affatto obbligatori. Anche perché, sul piano dei contenuti, i due lavori mostrano un livello di continuità praticamente inesistente, tanto che quasi soltanto la presenza delle mascherine e del concetto di pandemia può idealmente suggerire un prima e un dopo.
Il livello qualitativo di questa pellicola, in ogni caso, è a dir poco sorprendente ed essa appare anche attuale nelle tematiche che fanno da cornice all’enigma (dalla storia personale dei personaggi alle scoperte scientifiche delle industrie del miliardario, come il nuovo combustibile domestico brevettato), oltre che capace di porre dubbi addirittura di fronte a certezze granitiche.
Parafrasando una frase ricorrente del film, associata al quadro più famoso di Da Vinci, questa storia potrà sicuramente rimanere ricordata in eterno ogni volta che si parlerà del 2022 di Netflix. Con il suo miliardario, i suoi ospiti e il detective imbucato, quest’ultimo in grado di mostrarci che, purtroppo, a volte è necessario infrangere certe regole morali, attraverso piccole bugie, per giungere a una verità che non sia parziale.
Ma per chi invece si accontenta di questa, beh… può facilmente bastare una robusta martellata, che apre in fretta la sua scatola rompendola alla base, ma in fin dei conti ci dà ben poche spiegazioni su quello che ci sta accadendo intorno!
In collaborazione con Serial Dipendenti