“IL BUCO”: L’INFERNO INVISIBILE DELL’UOMO MODERNO

In un’imponente struttura verticale, con una cavità che la attraversa al centro per tutta la sua altezza, esiste da almeno venticinque anni un rigido sistema sociale in grado di azzerare le classi tradizionali di ricchezza e povertà e di costituirne di nuove, più dinamiche, fondandole intorno a uno spietato meccanismo a livelli.

Gli ospiti di questo micro-mondo deteriorato, ciascuno accompagnato nella strana esperienza da un oggetto scelto liberamente prima di accedervi, sono in gran parte individui deviati del mondo esterno che si sono prestati o sono stati costretti a questa realtà alternativa – senza però prima conoscerla effettivamente – per espiare colpe e sopprimere vizi, aggirando dunque i consueti percorsi di rieducazione (prigione, centri di recupero, …).

Ogni piano, privo di qualsiasi comfort a esclusione di letto e acqua corrente, appare formalmente identico a quello successivo, non può essere praticamente abbandonato e viene disposto per due persone. L’unica differenza significativa tra i vari livelli è rappresentata dalla quantità e dallo stato di preservazione del cibo che, tutti i giorni, una piattaforma sospesa trasporta settore dopo settore, percorrendo il grande buco centrale dall’alto verso il basso.

Le pietanze che partono ben impiattate dalla cima dell’edificio potrebbero sfamare l’intera comunità, ma invece finiscono sempre devastate ed esaurite molto presto, lasciando gli individui capitati in posizioni poco privilegiate a doversi creare dal nulla la propria sopravvivenza. In attesa che un mese completo trascorra e che si rigeneri, in apparenza casualmente, l’ordine di distribuzione dei gruppi, rinnovando così gli equilibri della struttura.

Attraverso la prova di Goreng, catapultato ingenuamente in questa dimensione distorta, presto assistiamo a quello che idealmente sembra stato pensato come un ecosistema per la promozione di un processo di purificazione: riassettare drasticamente la scala dei desideri comune a tutti gli uomini, riportando in primo piano solo ed esclusivamente i bisogni primari.

Facendo esperienza di una sorta di claustrofobia estesa anche alla dimensione temporale, spesso logorante per i corpi, il protagonista ci permette di indagare da vicino lo spirito della contemporaneità che domina nel mondo fuori, ma che ha preso naturalmente possesso anche di questo luogo inusuale, cioè proiettando all’interno dell’impianto molti dei suoi aspetti, compresi elementi negativi e criticità, in maniera esasperata.

La Fossa, questo il soprannome dell’opprimente struttura, riesce infatti a dare forma a diversi tratti della nostra società attuale che esistono in maniera prepotente, ma tante volte rimangono celati agli occhi: la difficoltà diffusa tra le persone di accedere a un sapere generale che sia completo, dove tutto appare intellegibile; la mancanza di una piena coscienza riguardo l’essere parte attiva di certi meccanismi invisibili instaurati e affermati da tempo, che di fatto si alimentano anche di iniziative e scelte individuali; l’egoismo, la competizione tra singoli e il consumismo smodato, dove quest’ultimo riesce a guidare le persone oltre le loro più strette necessità creando, da un lato, un’illusione di vita migliore e producendo, di contro, il rischio concreto di compromettere la sopravvivenza.

In concreto, a pensarci bene, esploriamo un moderno inferno dantesco, colmo di vizi e vuoto di virtù, in cui lo spazio ricorda come costruzione una struttura a gironi, spesso permeata da un intenso colore rosso e segnata da temperature impossibili a livello di sopportazione, e dove la mente umana, nella sua fragilità, finisce per trovarsi faccia a faccia proprio con demoni e spiriti quasi corporei.

In ogni caso Il Buco, film thriller fondato sul dialogo in cui risulta fondamentale l’azione, è un racconto crudo, cinico ma illuminante, capace in un’ora e mezza di realizzare un’anatomia profonda che parte dal singolo e arriva alla collettività, mettendo a nudo la natura umana, proponendo riflessioni sui gradi di libertà delle nostre scelte e ricordandoci come l’essenza che ci contraddistingue sia quella di corpi sociali, destinati a comunicare e condividere esperienze, piuttosto che quella di unità atomistiche deputate a vivere separate.

L’uomo comune che viene disegnato da questo prodotto è però un individuo negativo, an-empatico, consumato dentro in quanto consuma fuori, che sfugge dalle proprie responsabilità attribuendole sempre agli altri (“Davvero è colpa mia?”) e che tende a non reagire in maniera propositiva di fronte agli ostacoli. È un soggetto che non ha fiducia e vive la fede a giorni alterni, in risposta agli eventi che accadono.

Per quanto riguarda ulteriori riferimenti, con un ritmo scorrevole e per nulla monotono nonostante i limiti stringenti tipici di un ambiente circoscritto ci muoviamo tra cinque livelli ben distinti in quello che assomiglia, se pensiamo alla storia del Novecento, a un campo di concentramento, considerando per esempio l’assurda, macabra volontà di ristabilire forzatamente un preciso ordine delle cose spacciato per naturale, ma anche la riassegnazione dei nomi operata su ogni nuovo ospite; oppure, se ci rivolgiamo alla storia recente del cinema, a un rinnovato Snowpiercer verticale. Nella pellicola del 2013 abbiamo conoscenza della mente che domina l’intero meccanismo, qui invece viene affermata l’autogestione di questo Centro, ma risulta comunque difficile pensare che la situazione sia realmente tale, in quanto è forte l’impressione che esista una mano invisibile amministratrice, un regista occulto che non si palesa mai.

Implicitamente ispirato anche alla struttura con checkpoint dei videogiochi, Il Buco è un’opera distopica, che svela tanto del nostro reale e che, volendo, aderisce persino al particolare periodo che ci troviamo tutti ad affrontare di fronte alla grande emergenza attuale. Questo non soltanto perché nel film si assiste alla riaffermazione dei bisogni primari mentre noi parallelamente, nella situazione che ci troviamo oggi a vivere, stiamo prendendo parte a una generale riscoperta degli aspetti importanti ed essenziali della nostra esistenza, ma forse anche poiché in entrambi i contesti sono ben evidenti uno stato di isolamento, l’importanza del sacrificio individuale in nome di un’istanza comune, una condizione di isolamento forzata e persino un certo grado di impotenza della religione di fronte a determinati indirizzi drammatici che il mondo purtroppo può prendere.

Il finale, molto criptico rispetto alla concretezza del racconto che lo precede, è volutamente lasciato aperto e cerca di schiudere meglio gli occhi dello spettatore ricordando quanto in una società moderna come la nostra, dove il mezzo rappresenta il vero messaggio (il più famoso concetto comunicativo di McLuhan), adattarsi alle circostanze e sfruttare il potere del simbolo costituiscano un processo quasi necessario se si vuole ottenere maggiore probabilità di successo. L’epilogo, tra l’altro, prova persino a spiegarci che se il simbolo stesso è una persona, la comunicazione risulterà molto più efficace, anche senza dover parlare troppo, o bene, o troppo bene… e chiaramente in questo senso la teoria (ma anche la pratica) politica attuale ce lo insegna alla perfezione.

Di messaggi fondamentali, nel film, forse se ne nascondono un’infinità. Il primo che preferisco sta nel realizzare che, nella vita, la soluzione che sembra più facile si dimostra spesso quella meno adatta a risolvere i problemi (Meglio un libro o un coltello?). Il secondo, che forse in realtà è proprio il primo, sarebbe questo: se la logica ci porta a dire “è ovvio” e ci fa vedere le cose in un solo modo, per fortuna la razionalità ci fa dire “è possibile” e ci spalanca di fronte un mondo intero di opportunità.


In collaborazione con Serial Dipendenti

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