Come un ragazzino di una Gattaca qualsiasi, Adam è minuto, dal fisico esile e con l’asma che lo tormenta, ma punta comunque gli occhi verso un futuro migliore, quando non distratti dal luccichio dei videogame. E se il suo presente fa fatica a scorrere, privandolo di ogni prospettiva positiva, ci pensa addirittura il futuro a portargli risposte definitive a vecchie instancabili domande sulla vita, in una missione di soccorso condotta esattamente dal sé stesso di trent’anni dopo.
Un po’ multiverso, sulle ombre tanto pronunciate quanto ingombranti di mamma Marvel, e un po’ teoria della connessione tra epoche diverse, forse in omaggio all’intricato quadro narrativo del Dark netflixiano, la storia nasce da un balzo temporale tra il 2050 e il 2022 e da qui si sviluppa non appena l’adolescente, una notte, esce dalla suggestiva casa nel bosco in cui vive e, imbracciando una torcia, incontra la sua stessa proiezione: un uomo muscoloso, con un passato da pilota, che sta cercando di correggere il flusso temporale, prima che sia troppo tardi e che gli eventi cancellino una parte importante della sua esistenza, oltre che del suo cuore.
In linea con la situazione della nave spaziale presa in prestito proprio dal protagonista-visitatore, per un po’ bloccata tra gli alberi in attesa di riparazione, i primi segmenti della pellicola effettivamente non decollano e impiegano molti (troppi) minuti prima di generare reale interesse nello spettatore, forse anche trattenuti a terra da una sceneggiatura che non prevede in partenza dialoghi esaltanti, preferendo di gran lunga agevolare una visione – almeno all’inizio – non impegnativa, spesso travolta da una seria CGI hollywoodiana in cui vengono incastonati preziosi tappeti musicali, avvolgenti ed esaltanti.
Ma l’impianto della trama, versione 2.0 di quel viaggio dell’eroe teorizzato da ogni manuale di scrittura cinematografica, più tardi comincia finalmente a proiettare le sue ondate di effetti speciali seguendo un unico esclusivo obiettivo, sempre più evidente, ossia condurci a serie riflessioni sull’ordinario e su questioni talmente normali o trasversali da finire per riguardarci tutti, indistintamente, nel nostro intimo.
Tra nolaniani acceleratori magnetici e wormholes, entrambi moderni traghettatori di anime oltre i confini di spazio e tempo, presto le dinamiche restituiscono in maniera vivida quel processo di cambiamento del piccolo Adam che avverrà e che in realtà è anche già avvenuto, ma che paradossalmente non appare definitivo in quanto soggetto a nuove possibili trasformazioni, a partire dall’interazione dei due diversi mondi.
Così, narrativamente senza alcun aiuto di flashback o anticipazioni in quanto ogni epoca funzionale al racconto è esplorata nello stesso momento – i principali eventi sono ambientati in maniera intelligente nel presente del ragazzo, che costituisce il passato dell’adulto, e in questo medesimo tempo il futuro è descritto perfettamente dalle parole dell’uomo che è venuto ospite dai decenni successivi – l’intreccio gradualmente scopre tutte le reali intenzioni autoriali, che vogliono proporre un lavoro concettuale capace di spingersi ben al di là delle bell(issim)e apparenze e a cui risulta effettivamente subordinato un cast di assoluto rilievo, ormai tratto distintivo delle ultime hit targate Netflix.
Il trittico di grandi nomi del genere fantasy (Ryan Reynolds, Mark Ruffalo e Zoe Saldana), in grado di far brillare i titoli di coda, appare infatti del tutto a servizio del messaggio più che della qualità estetica del prodotto in sé, assai vario nel linguaggio e fondato su scelte stilistiche a volte totalmente originali e inedite, in altre occasioni invece piacevolmente citazionistiche – altra costante tipica delle produzioni filmiche del gigante rosso dello streaming.
La storia, che da “semplice” racconto per famiglie vuole trasformarsi anche in profondo racconto famigliare (centrale l’analisi del rapporto genitori-figli, restituito al pubblico nei suoi fondamentali e fisiologici stadi), si spende infatti per fare da buona maestra e, attivando le doti di ragionamento di chi guarda, per impartire quindi delle lezioni, compreso un primo significativo insegnamento: nessun altro potrà mai vivere la nostra stessa esistenza e, per questo banale motivo, dovremmo imparare tutti a gestirla a pieno il prima possibile, senza aspettare ingenuamente che poi il tempo ci insegni come fare, una volta sì giunto a bussare alla nostra porta, ma solo dopo aver seguito i suoi ritmi blandi e spesso traditori, per quanti invece lo attendevano prima.
A ben pensarci, il dodicenne che seguiamo sullo schermo e che ha l’orologio analogico ereditato dal padre sempre ben saldo al polso, quasi potesse svolgere anche il ruolo di bussola nell’orientamento quotidiano, ospita in realtà tre persone in un solo corpo, mentre acquisisce nuove consapevolezze: oltre a se stesso, è anche il nuovo uomo che si trova catapultato di fianco e finisce persino per rispondere al nostro nome, man mano che il suo percorso di acquisizione di conoscenze riesce ad assumere forme sempre più universali, diventando per questo anche il nostro cammino.
Riguardo la vita, The Adam Project oggettivamente restituisce una visione migliorativa. Lo fa cercando di esercitare, attraverso tentativi ripetuti e interessanti, una forte influenza sulla percezione della nostra esperienza e in particolare sulle idee che abbiamo di ciò che siamo stati davvero negli anni ormai definitivamente trascorsi, di quanto stiamo rappresentando oggi (per noi e per gli altri che ci circondano) e soprattutto di tutto quello che potremmo ancora essere, una volta diventati padroni di ogni prospettiva.
Mostrando, in alcune scene, astrusi calcoli scientifici e complicate trascrizioni matematiche per spiegare la piena conquista del tempo, la pellicola implicitamente riesce a trasferire, forse per osmosi, il concetto più rilevante di tutti, cioè che è seriamente possibile acquisire il metodo per condurre un’esistenza serena e senza rimpianti. Occorre soltanto comprendere come l’unica formula su cui la dimensione temporale si fonda non è affatto di tipo matematico, ma è piuttosto un assunto logico, dall’espressione che – all’incirca – potrebbe recitare così: il nostro passato sarà fondato sul presente che stiamo vivendo oggi e che genererà il nostro futuro.
Ignorando tale regola, sembrano rivelarci all’unisono tutti i personaggi, ogni nuova generazione continuerà in modo inesorabile a trascorrere la sua adolescenza protesa in avanti, a raggiungere al più presto il mondo dei grandi, per poi però finire intrappolata in un presente da adulti inseguendo a quel punto, disperatamente, un periodo ormai alle spalle e di cui non ha saputo godere a pieno.
Il film suggerisce inoltre che tutti abbiamo sempre un tempo stabilito, cioè quello a cui si appartiene fisicamente nel qui e ora, ma la conclusione che porta inevitabilmente a trarre, se leggiamo tra le ordinate righe di una sceneggiatura che si rinsalda con l’avanzare dei minuti, è che ne abbiamo anche un secondo, il quale forse non ha un nome ma è semplicemente il momento in cui finalmente capiamo tutto. E per aprire la mente e vivere riducendo gli errori al minimo, insomma, c’è soltanto da lavorare per fare in modo che queste due forme si allineino il prima possibile e finiscano per coincidere completamente.
Terminata la visione, questo compito – impegnarsi seriamente perché ciò accada – appare forse il vero grande progetto di Adam, che per il pubblico (soprattutto quello più giovane) può diventare ideale ispirazione. E se proprio il protagonista stesso porta con sé anche il peso di un nome di caratura biblica, allora l’insegnamento generale trasmesso dalla sua storia non può far altro che diventare vera e propria sentenza. O, se si preferisce, un primo nuovo comandamento da seguire: «Fa sì che il tempo delle maggiori decisioni corrisponda a quello della piena consapevolezza».
In collaborazione con Serial Dipendenti